Il prezzo sorgente e il valore d’origine
Ci è capitato in questi giorni di vedere sulla pagina di una nota rivista, un’immagine pubblicitaria che evidenziava “Sosteniamo l’agricoltura, prezzo trasparente, tu paghi le uova 2,80, al produttore riconosciamo 1,18”. Quella pubblicità ci ha fatto tornare alla mente l’ottobre 2002, quando Luigi Veronelli venne in visita alla Cascina Cornale, prima ancora che nascesse Agrispesa. Quella sera gli illustrammo il nostro progetto: sui cartellini prezzo avevamo deciso di dichiarare il prezzo che ogni produttore calcolava per avere onestamente pagato il proprio lavoro. Era a partire da quel prezzo che al Cornale avremmo definito il prezzo di vendita al pubblico: non c’era chi “riconosceva” ad altri, ognuno calcolava in modo onesto e trasparente il valore del proprio impegno. Veronelli fu entusiasta dell’idea, la fece sua e ben presto parlò e scrisse di “prezzo sorgente”. Ci è sembrato strano che oggi sia pubblicizzata come nuova un’idea nata 22 anni fa.
A proposito di pensieri importanti (ma forse in anticipo sui tempi?), riportiamo di seguito un bello scritto di Simona Limentani, oggi titolare a Roma di Zolle, allora con noi qui ad Agrispesa. Il concetto è quello del valore d’origine: è un’idea chiara, pulita, trasparente, praticabile.
“Qualche giorno fa è venuto un giornalista al Cornale. Per spiegargli con quale tipo di prodotto e di aziende lavoriamo, gli ho raccontato dei fagioli del Babi, delle persone che li coltivano e delle caratteristiche della loro coltivazione: i pali di castagno su cui si arrampicano le piante giovani, il nome popolare che allude alla tendenza delle piantine di rimanere a terra al livello dei rospi (babi in dialetto), il sesto di impianto che si fa così come da sempre si tramanda ed il ‘biologico’ che non è tale perché certificato, ma perché lì ‘la roba chimica’, nessuno, su quella terra di montagna, l’ha mai usata.
Il commento del giornalista è stato: certo che dei fagioli in scatola che compri al supermercato non puoi dire niente, non hanno storia.
No, l’interessante è questo: anche i fagioli in scatola hanno una storia, ma se la loro vera storia fosse raccontata, probabilmente nessuno desidererebbe più mangiarli. Probabilmente sarebbe un racconto fatto di fagioli comprati da non si sa chi, coltivati non si sa bene dove e come, che probabilmente hanno viaggiato tanto, che sono stati selezionati e lavorati per mantenersi ‘all’infinito’ in una scatola di alluminio. Questi fagioli in scatola vengono prodotti solo per ottenere un guadagno, il resto è irrilevante.
I processi che sottostanno ai prodotti dell’agroindustria seguono con coerenza le regole del profitto economico, i loro modi sono quelli dell’efficienza tecnologica, di una razionalità economica che tende prima di tutto ad abbattere i costi di produzione (non ha importanza poi se emergono altri costi, ambientali, sociali o culturali…). Inoltre la produzione di alimenti è sempre più concentrata, tecnologicamente complessa e perciò lontana dall’esperienza comune: è estranea a saperi vissuti o tramandati come normali anche solo fino a venti o trenta anni fa.
Il processo produttivo in sé non ha più valore sociale, è scomparso dall’orizzonte della percezione comune: quasi nessuno sa da quali mani o da quali macchine è stata coltivata, quali distanze ha percorso, in quali liquidi e attraverso quali macchinari è passata, ad esempio, l’insalata, prima di finire ‘già lavata’ nel sacchetto di cellophane del supermercato. Queste storie non si possono raccontare. La realtà del prodotto intesa come verità della sua produzione e della sua composizione è scomparsa, o, meglio, non può essere detta […].
Proprio a causa dell’esistenza di questa frattura tra ‘verità’ degli alimenti e bisogno di sentirsi sicuro di chi se ne nutre, oggi è vitale che gli alimenti siano accompagnati, siano rigenerati, da una comunicazione, da ‘un’immagine’ che li renda desiderabili, che restituisca loro una storia accettabile: affinché un alimento sia comprato è indispensabile ricreare contesti culturali ed esercitare una pressione sociale in grado di condizionare le scelte nella direzione corretta: che ci si fidi di quel cibo e che lo si acquisti.
La pubblicità e il condizionamento sociale non sono quindi una scelta per l’industria alimentare, sono una necessità. È vero che le persone sono ‘costrette’ a mangiare, mangerebbero comunque, ma vanno indotte a mangiare precisamente quell’alimento […]. Alla stessa esigenza, creare fiducia lì dove si è interrotta la catena dell’esperienza, risponde la creazione di marchi e di certificazioni, anche se ad un livello maggiore di complessità […]
Le varie certificazioni hanno, sì, un valore, ma, specie nel campo alimentare, non hanno il valore che le persone comunemente attribuiscono loro o che sono state indotte ad attribuire. D’altro lato le persone, quando chiedono un ‘prodotto certificato’, esprimono un bisogno – di sicurezza – non una scelta, non sanno esattamente che cosa sia la certificazione, non sanno che si può certificare di tutto, dalle armi alle palline da tennis al formaggio, e che sovente non si certificano le caratteristiche intrinseche di un prodotto, ma le modalità dei processi di produzione.
Spesso le persone si informano sul tipo di prodotti che vendiamo al Cornale e ci chiedono se sono certificati. No, non sempre lo sono, ma noi conosciamo direttamente tutte le aziende e abbiamo esaminato i loro cicli produttivi… e questo basta a rassicurare, anzi […]. Se il raccontarne la vera storia avvenisse per tutti gli alimenti, vi sarebbe una reale possibilità di scelta.
Noi siamo convinti che esista uno spazio per cambiare il comportamento alimentare delle persone, a partire dalla constatazione del fatto che chi acquista un prodotto acquista sulla fiducia, e la fiducia può essere avvalorata se: vi è possibilità di conoscenza diretta; nella semplicità del prodotto puoi ri-conoscere ingredienti, senza dover decifrare lettere e numeri; vi è la possibilità di accedere al racconto ‘vero’ della storia del prodotto. Questo va ben al di là delle certificazioni o dei marchi: ha la sua forza nella possibilità di raccontare una storia perché vera. A partire da queste considerazioni, al Cornale basiamo la commercializzazione dei prodotti sulla comunicazione del loro valore, valore che è racchiuso solo nella realtà che li ha realizzati. È un valore che chiamiamo valore di origine, perché intrinseco all’alimento ed è tutto uno con il processo che lo ha prodotto; se anche la nostra comunicazione venisse meno quel valore rimarrebbe, sarebbe presente per chiunque volesse andarlo a cercare, all’origine, appunto”.