Parlare di cultura provenzale è stata veramente una scoperta

“Io sono di Santa Lucia di Cumboscuro – ci racconta Anna Arneodo – comune di Monterosso Grana in Vallegrana, dove negli anni Sessanta è nato il primo centro per la riscoperta della lingua da cultura provenzale delle nostre valli. Erano momenti in cui l’emigrazione era ripresa fortissima dopo la guerra e, nella scuoletta di Santa Lucia di Cumboscuro, mio padre, Sergio Arneodo, aveva creato il primo punto di incontro e di rivalutazione della cultura provenzale delle valli. Mio padre era insegnante e aveva scoperto che quello che si parlava nelle valli non era una variante del piemontese, ma era una variante della lingua doc, quella parlata dai trovatori, quella lingua in cui il poeta Frédéric Mistral aveva scritto Mireio, un poema tutto in provenzale a cui era stato assegnato il Nobel nel 1904. Papà nelle scuole aveva messo due banchi da scultore e insieme ai suoi amici artisti di Cuneo, Beppe Viada e Bernard Damiano, aveva cominciato a insegnare ai ragazzi il lavoro dell’intaglio del legno, perché la gente continuava ad emigrare proprio perché nelle valli non c’era lavoro, l’agricoltura non bastava più a sostenere l’economia. Così facevano mobili rustici intagliati per creare anche un’attività economica di supporto e alcune famiglie si erano fermate. Questo è andato bene fino verso gli anni Ottanta, quando sembrava proprio che a Santa Lucia ci fosse una ripresa.

Io avevo finito gli studi, mi ero sposata e avevo pensato di creare una famiglia che continuasse a portare avanti le idee della nostra lingua e della nostra cultura per far ripartire la montagna. Sono andata a stare in una borgata un po’ più in su di Santa Lucia, dove c’erano la chiesa e l’atelier, dove papà aveva anche creato un piccolo museo etnografico. Mi rendevo conto che la terra aveva bisogno di cura perché tutti i nostri prati, i nostri campi stavano scomparendo, il bosco stava mangiando tutto, non c’era più nessuno che curava la terra. Per cui ho scelto pian piano di cominciare a pulire prati, campi e creare una piccola azienda agricola. Intanto ho avuto quattro figli, stavano crescendo, hanno cominciato tutti, man mano che crescevano, ad usare il rastrello, a fare fiero con noi, a imparare a lavorare. Tutti hanno studiato e avevano scelto di rimanere qua. Intanto noi oltre a fare il fieno, a pulire i campi, avevamo iniziato ad allevare pecore sambucane che sono una razza in via d’estinzione, che una volta si chiamava Demontina, era la pecora tipica da lana, la “feo fino” perché aveva la lana fine che andava bene a filare. Adesso la lana non vale più niente, nessuno la ritira più, non ci esistono più lavaggi in nord Italia, è un rifiuto speciale perché sporca.

Poi abbiamo cominciato a fare un po’ di erbe officinali, abbiamo provato a recuperare vecchie cultivar di mele, quindi facciamo mele secche, quando la raccolta delle mele va bene, perché le vecchie varietà non hanno continuità di produzione, alcuni anni non portano quasi niente. Abbiamo provato a fare succhi di mele, mele secche, facciamo sciroppo di fiori di sambucco.  Agnès, mia figlia, è quella che si occupa degli animali, lei ha proprio un dono perché lei vede la pecora e ti dice sta bene, sta male, lo vede subito. Poi c’è l’ultimo figlio, Tatàn, il suo nome è Costanzo, va anche a tagliare legna. Però vivere soltanto di agricoltura in montagna non si può, così abbiamo anche integrato con due camere di ospitalità rurale, due mesi d’estate , quando c’è il tempo bello. Abbiamo una dozzina di ettari, quasi tutto di foraggiero. Poi facciamo un po’ di patate e di castagne.

Certo, mio papà era partito con un’intuizione geniale per i suoi tempi, perché lui ha precorso i tempi, negli anni Sessanta, parlare di cultura provenzale, alpina, nelle valli, è stata veramente una scoperta. D’altra parte, proprio perché è una scoperta, tutto era nuovo, tutto era bello. Tutti erano entusiasti di questo messaggio che papà portava in giro, imparare a scrivere la nostra lingua che prima è sempre stata orale, tutta la ricerca, era tutto bello, la gente era entusiasta. Adesso manca l’entusiasmo, ormai le scoperte grosse sulla nostra cultura sono state fatte, ora si conducono ricerche specialistiche di settore. E poi comunque è un mondo in crisi che pesa molto più sui giovani che su di noi. E poi quello che pesa sopra la montagna è il vuoto demografico che c’è: non ci sono più punti di incontro sociale, non c’è più la chiesa, non c’è più la scuola, non c’è niente che li sostituisca. Secondo me papà è vissuto fino alla fine di ideali, c’è quella bellissima frase di Mandela: “Il vincitore è quello che crede fino alla fine della bontà dei suoi ideali”. Questa è stata la fortuna di papà, che lui è morto continuando a pensare soltanto a Santa Lucia, al museo, al Provenzale, alle cose che facevamo. Quando mio papà ha iniziato tutta la sua scoperta, diciamo che le valli erano unite, nel senso che era una scoperta per tutti. Tutti erano contenti di scoprire che parlavano questa lingua.

Se ci penso troppo, sono sfiduciata, perché se sei razionale sei sfiduciata, calcoli quanti se ne sono andati, quanti siamo rimasti, possibilità di continuare, sei sfiduciata, poi essere sfiduciata non porta a niente, quindi scegli di continuare. E per quel che concerne strettamente l’agricoltura, non ti salvi, hai bisogno di contributi per sopravvivere, non per fare fortuna. Ma un’agricoltura che vive di sussistenza, che vive di contributi pubblici, non è un buon segno. D’altra parte non solo l’agricoltura di montagna, tutta l’agricoltura italiana, tutta l’agricoltura in generale in Italia, in Europa vive di sussidi, perché il prodotto agricolo non è pagato adeguatamente. Noi siamo azienda biologica, però molti prodotti non hanno il marchio biologico, infatti c’è scritto azienda biologica Anna Arneodo, ma non tutti hanno la foglia del biologico perché ormai vendiamo in convenzionale per avanzare carta, perché è impossibile, controlli e tutte queste cose”.

Storie di agricoltura.